Per le strade sembravano scomparsi. Di certo diminuiti. Ma scomparsi poiché, quasi sempre, se ancora in funzione, non accettavano monete. Rifiutare un cellulare. Comunicare dal telefono pubblico. Usare le monete. Impossibile. Guardavo la cabina. Luogo triste, anonimo. Telefoni rotti. Non funzionavano con le monete. Nessuno. Andavo più avanti, giravo in fondo poi la piazza, lungo il marciapiede, nel piccolo caffè all’angolo. Disperavo dell’errore di non aver quell’oggetto che permetteva a tutti di svegliarsi, di chiamare, di fotografare. Fissavo il telefono pubblico. Solo, mai frequentato, una luce, una scritta, un buco per le monete in alto, una fessura per le tessere in basso, una cornetta spesso penzolante. Non c’era la cabina, non importava, se avesse piovuto, un piccolo archetto di plastica avrebbe protetto.
Restai lì qualche ora. Giunse una vecchia. Un po’ trasandata, un cappello sgangherato, mani doppie, unghie grosse, ricci biondi ma sbiaditi fuori, bianca, bianchissima, strati di vestiti e cappotti. Prese la cornetta la sbattè sul telefono. La sbattè di nuovo. Lo colpì da un lato, lo colpì dall’altro. Aspettava. Prese di nuovo la cornetta, premette ogni pulsante. Colpì il buco, colpì la fessura. Aspettava. Frugava nel foro in basso. Niente monete. Ritentò. Alcuni guardavano il telefono schifati, sembravano pensare che quell’azione fosse una sorta di lavoro compiuto dalla donna. Come se quest’ultima passasse tutta la sua giornata colpendo telefoni, tentando di trovare quelle monete lasciate o incastrate nel ricevitore per arrotondare gli spiccioli raccolti in altri luoghi. La donna andò via, sconsolata, lasciava tra gli sguardi di accusa la cornetta penzolare. Restai fermo, ormai nessuna possibilità di telefonare sembrava possibile.
Giunse un’altra donna. Questa volta vestita meglio ma folle. La sua follia si avvertiva dalle mani, dal modo intermittente in cui le muoveva, i capelli ben sistemati, grassa al punto giusto, un vestitino attillato, sgualcito da qualche giorno. Con fare circospetto la vecchia prese un ferretto dalla borsa che teneva in mano. Lo guardò, lo lucidò. Lo infilò nel buco per le monete. Spingeva, spingeva, spingeva. Cercava in ogni modo di far entrare quell’uncino nella fessura. Una volta dentro rovistava a destra e sinistra, lo infilava più che poteva. Questa volta le persone non sembravano attratte dall’azione poiché era meno evidente, meno rumorosa, professionale. La vecchia sentì qualcosa. Contenta diede l’ultima spinta al ferretto, quella decisiva. Si sentì nello stesso momento una moneta cadere nel foro in basso. Lei la prese senza curarsi della placca di metallo protettiva. Aveva guadagnato pochi centesimi ma il volto era felice.
Quel telefono mi spaventava, non lo frequentava più nessuno. Me ne stupivo, non avrei dovuto. Pensavo a quanto fosse facile per gli altri premere un pulsante e chiamare chi volevano, quando volevano. Quel telefono pubblico serviva ora solo a vecchie donne senza un soldo o a barboni per dormire, se fossero state cabine. Fu così che decisi di comprare un cellulare.
Racconto di Giuseppe Acconcia (Salerno, 1981), giornalista, scrittore e ricercatore. Corrispondente dal Cairo del Manifesto dal 2011 e ricercatore specializzato in Medio Oriente per le Università di Londra e Pavia, ha scritto anche per The Independent, Al-Ahram weekly, Xinhua News Agency, AdnKronos, Linkiesta e openDemocracy. Ha realizzato il documentario radiofonico Il Cairo dalle strade della rivoluzione e collaborato alla drammaturgia di Pictures from Gihan dei Muta Imago. Nel 2013 ha vinto il Premio Castellano e il Premio Giornalisti del Mediterraneo. Ha scritto, tra gli altri, Un inverno in due giorni (Fara, 2007), La primavera egiziana (Infinito, 2007) e Egitto. Democrazia militare (Exorma, 2014).